Utilizzato in origine nel campo della fisica per descrivere la resistenza dei materiali agli urti senza spezzarsi, il termine resilienza ha diversi significati in base all’ambito di applicazione: in informatica indica un sistema che continua a funzionare nonostante la presenza di alcune anomalie, in biologia si parla di organismi resilienti, in grado di autoripararsi dopo aver subito un danno.

In ambito psicosociale s’indica la capacità di fronteggiare le difficoltà, resistere ai traumi e riorganizzare la propria vita in una prospettiva propositiva.

La resilienza è dunque la capacità di un soggetto o di una comunità di raggiungere un adattamento funzionale malgrado le situazioni avverse, capacità che deriva dall’integrazione di apprendimenti specifici, per lo più collegati a contesti d’interazione sociale.

La resilienza riesce a trasformare l’evento traumatico in una fonte di crescita. Gli eventi traumatici che possono dare origini a risposte resilienti possono essere fisici e/o morali: disastri naturali, condizioni di estrema povertà e vulnerabilità, malattia, morte di una persona cara, abbandono del proprio paese,….

Non si tratta di una mera resistenza passiva, di una reazione automatica, bensì di una risposta cosciente del soggetto o della comunità. La resilienza non è inoltre uno stato predefinito e immutabile: l’individuo o la comunità può essere resiliente in certe condizioni sfavorevoli ma non in altre.

Le capacità di resilienza possono inoltre evolversi nel tempo in rapporto allo sviluppo della persona e all’invecchiamento.

In alcuni casi l’individuo o la comunità ha bisogno di un supporto nel riconoscere le proprie risorse e divenire resiliente.

Promuovere la resilienza significa incoraggiare la capacità di tutti gli esseri viventi di mettere le proprie risorse a servizio di sé stessi.
L’individuo resiliente non è un “superuomo”, non è immune alla sofferenza. Il suo unico potere consiste nel modificare l’assetto cognitivo ed emotivo con cui legge gli eventi.